Un 3 maiuscolo

Giacinto Facchetti:
un campione indimenticabile, un uomo irreprensibile, una vita esemplare. Adesso un nuovo libro a lui dedicato ce lo racconta in modo originale ed emozionante perché nasce dal cuore di un appassionato e non di un tifoso.
Il calcio è un gioco. Partendo da questo assunto ci si può inoltrare con molta più leggerezza in un argomento che sembra aver acquisito con il tempo solo connotazioni poco lusinghiere. Ma non è così.
Facendo un excursus mediatico anche piuttosto sommario non può sfuggire l’idea che siamo in presenza di un’overdose massiccia di informazioni riguardanti il mondo del football, soprattutto nostrano. Sia perché gli eventi principali - le partite - vengono sparpagliati per tutta la durata della settimana, con annessi e connessi commenti, opinioni, polemiche, processi e moviole assortite, sia perché, esaurito l’eco del match, vengono presi in considerazione “effetti collaterali” che poco hanno a che fare con l’aspetto tecnico e sportivo.
Il rischio, perciò, è quello di ricadere nelle tentazioni dell’audience facile innescata da un rigore non dato, da un fuorigioco inesistente o dalla “wag” di turno.
Allora possiamo provare a cavalcare un’onda benefica che s’è recentemente formata con l’ausilio per una volta positivo del web, ovvero la (ri) scoperta del calcio vintage. Parola orribile ma che ricorre spesso come espediente per identificare un’epoca calcistica che, dagli albori, si spinge fino alla fine degli anni ’80. Un’epoca i cui eroi (Sivori, Mazzola, Rivera, Riva, Zoff, Rossi, Baggio, solo per citare i più noti) risplendono ancora come stelle luminosissime e pietre di paragone per ogni giudizio sul calcio. Ecco che la ricerca da parte di collezionisti, appassionati e nostalgici di qualsiasi cosa che ricordi quel calcio è diventato uno dei passatempi preferiti dai profughi del calcio moderno che vogliono trovar riparo in quello puro del loro recente passato. Sono per lo più giovanotti nati dagli anni ’70 in giù, ma contemplano anche ventenni e trentenni che hanno rinnegato il football moderno, stridulo e poco appetibile, per il più fascinoso e suadente calcio vintage. Abbiamo incontrato uno di loro, Daniele Bonesso da Quarto d’Altino (Venezia), 50 anni da compiere, di professione grafico free-lance, appassionato di musica (suonata ed ascoltata), di teatro e, soprattutto, di calcio… d’antan.
L’abbiamo incontrato perché è esattamente il tipo di persona che, abbandonato definitivamente il calcio mediatico del terzo millennio, s’è immerso nel mondo della Storia del Pallone e da lì non s’è più mosso. Da sempre colleziona quintali di carta sotto forma prima di fumetti poi, col tempo, di figurine e, infine, tutto ciò che la carta ha impresso riguardo il calcio fino agli anni ’80. Entrare nel suo antro - o “rifugio”, come lo definisce lui - è immergersi nelle passioni più intime di un padre di famiglia desideroso di mantenere intatto quel legame che ci unisce alla nostra infanzia, al giocare leggero, in una sorta di primordiale sindrome di Peter Pan. Non a caso ci ha tenuto a precisare come “…amo la lingua inglese poiché in un solo verbo, “to play”, ha tradotto le mie tre passioni più grandi: “giocare”, “suonare” e “recitare”…
Daniele, com’è nata questa tua passione?
Collezionare per me è sempre stata una questione quasi primaria. Fin da piccolo raccoglievo e radunavo elementi diversi della stessa natura: i bottoni di mia mamma sarta, automobiline, soldatini, fumetti e, immancabilmente figurine. Poi, finite le medie le figurine diventano “cose da bambini” e non ci pensi più per un bel po’. Poi ti sistemi e certe tue passioni sopite tornano a reclamare lo spazio che meritano. Cerchi quindi di recuperare gli anni perduti e soprattutto di ritrovare le cose che, nel frattempo, avevi frettolosamente buttato o regalato ai cuginetti.
E cominci a ricomprare figurine, no?
Esatto. Ma c’era troppa roba da seguire, allora decisi di specializzarmi in figurine che riguardavano esclusivamente l’Inter. Raccoglievo tutto ciò che la riguardasse e che fosse in formato cartaceo: cartoline, foto, ritagli, poster, riviste, libri.
Poi, nel settembre 2006 morì Giacinto Facchetti, l’allora presidente dell’Inter. Tu ci rimasi male.
Avevo da poco perso mio padre e sapevo cosa voleva dire perdere così una persona cara. Moralmente mi intrufolai quasi nel dolore della sua famiglia, di cui non conoscevo nessuno, personalmente. Ed ebbi così a cuore quell’uomo, quel campione che inconsciamente divenne per me
un simbolo, una specie di secondo padre sentimentale e il pensiero di aver perso pure questo mi convinse che avrei dovuto rendergli omaggio in qualche maniera e da lì iniziò la mia specializzazione in “collezionista di figurine di Facchetti”.
Una collezione altamente specifica ma anche limitata… Apparentemente. Mi son reso conto che, tra Inter e Nazionale Italiana, tra varianti e raccolte antologiche i pezzi diversi che si conoscono al momento sono almeno 300! E temo di ignorare ancora l’esistenza di altri pezzi sconosciuti.
Hai avuto, conseguentemente, un’idea forse un po’ ardita. Ce ne parli?
Sì. L’idea primigenia era quella di mettere ordine filologico alla collezione, che nel frattempo si faceva sempre più corposa, arrivando a migliaia di pezzi. Per farlo pensai di crearmi un album personalizzato a schede, visto che, grazie alla mia professione, avevo una discreta manualità e creatività… dall’album al libro il passo fu breve, anche se mi resi conto che avrei potuto permettermi di realizzare solo un cosiddetto “fotolibro”, di quelli che trovi tranquillamente sul web a prezzi tutto sommato abbordabili.
Quindi abbandonasti l’idea del libro…
Tutt’altro. Divenne un obiettivo a cui puntare, ma mancavano le condizioni per arrivarci.
Ma le condizioni si crearono di lì a poco.
Già. Ed è una bella storia da raccontare.
Raccontacela, allora…
Per accaparrarmi i pezzi mancanti, ovviamente lo strumento privilegiato era il famoso sito d’aste online Ebay. Mi ci perdevo le serate alla ricerca del Facchetti mancante… solo che, spesso, il mio tentativo veniva vanificato da un tale che per prontezza e “capacità di fuoco” sembrava imbattibile soffiandomi da sotto il naso ogni obiettivo. Alla lunga la cosa diventò noiosa e dài uno, dài due, dài tre… alla fine mi son deciso che, come recita un vecchio adagio, “se non lo puoi combattere, fattelo amico”. Mi misi in contatto con questo “signore” di cui conoscevo solo il criptico nickname. Me lo immaginavo di mezza età, pelato e con un folto paio di baffoni, risoluto e pronto a fregarmi ogni pezzo solo per il gusto di farmi un dispetto… Gli racconto quasi misericordiosamente della mia collezione, dell’idea di farne un libro e mi vantavo dell’intenzione prima o poi di proporlo a Moratti… o alla famiglia Facchetti. La risposta fu un fulmine a ciel sereno. Mi ero imbattuto non in un tizio di mezza età ma in una gentile signora, gradevole ed educata che sembrava fosse molto interessata alla mia idea. Anzi, lo era il suo compagno che poteva vantare un legame affettivo di tutto rispetto con il buon Giacinto: ne era il figlio! Era proprio Gianfelice Facchetti!
Una bella “botta di… vita”!
Altroché! Ma sai, sono quelle cose che poi alla fine pensi che debbano succedere per forza…
Quindi, cominciasti a “frequentare” Gianfelice Facchetti?
Sì. Ed è stata una bella cosa che ora posso definire una buona amicizia… Sono stato spesso ai sui incontri di presentazione del suo splendido libro “Se no che gente saremmo”, libro bellissimo che, per altro, consiglio a tutti, non solo agli appassionati di calcio e dell’Inter in particolare.
Gianfelice é una persona solare, tranquilla che emana serenità. Credo che suo padre fosse esattamente così.
Ma con lui, ne avete parlato del libro, in seguito?
E come no! Io ormai avevo capito che dovevo portarlo a termine. Era una mia mission, ormai. Lui mi ha sempre sostenuto in questo, mi ha fatto una bellissima prefazione che orgogliosamente condivido con tutti. Gliene feci avere una copia prototipo stampata in digitale e ne rimase entusiasta. Poi, da lì, ho dovuto riprendere in mano il progetto e rifarlo praticamente da capo a piedi a causa di problemi “tecnici”. Ne ho approfittato per aggiornarlo con gli ultimi arrivi ed è alla fine diventato un bel volume di 144 pagine fitte fitte nelle quali ho esposto, racchiuse nelle 18 stagioni della sua carriera, tutte le centinaia di pezzi della mia collezione.
Hai scritto anche una sua biografia?
Non ce n’era bisogno. Diciamo che è già di per sé una biografia per immagini stampate, di ogni sorta e di ogni provenienza, dalla figurina alla cartolina, dalla foto stampata al poster, dalla rivista al libro eccetera…
Ma, Daniele, dammi un buon motivo per dire che valga la pena possedere questo libro, considerato che di biografie di Facchetti ne son state scritte parecchie e tutte da autorevoli giornalisti, scrittori e, addirittura da lui stesso
(“La rabbia del gol”, autobiografia del 1970, n.d.r.) e da suo figlio. Hai perfettamente ragione. Li possiedo tutti. Li ho letti tutti e sono tutti ben fatti. C’è chi si concentra più sul Facchetti calciatore e dirigente, chi sul Facchetti uomo o sul Facchetti padre. Ma il mio libro si concentra totalmente sul Facchetti immagine, intesa proprio come rappresentazione bidimensionale del suo essere quel che era: un campione di calcio adorato dai tifosi e dai non tifosi. Infatti, credo questo sia un libro passionale, nel senso che non aggiunge nulla a ciò che ha fatto da calciatore, poiché già detto e raccontato, ma lo racconta in maniera originale, ovvero con l’occhio del bambino che è sempre in noi.
L’o
cchio del bambino? Spiegati meglio…
Tutti noi maschietti abbiamo giocato con le figurine, da piccoli, tutti. Quella manipolazione tipica nell’abituale rito del “celo… manca…”, quel fatto di memorizzare ogni volto, ogni maglia di ogni giocatore è un tatuaggio sentimentale che non va più via. Io li riconosco ancora tutti i giocatori degli anni ’70! Con il mio libro volevo proprio che si rievocasse questo sentimento che è comune a chiunque abbia giocato con le figurine. E per come è strutturato, non può che essere così… almeno a me fa questo effetto! Per amor di metafora dico spesso che l’occhio è una parte del nostro corpo che fisicamente non cresce con l’età, resta sempre uguale. Il senso sta proprio in questo: l’occhio del bambino, nell’adulto resta tale e quale così come resta tale e quale ciò che vi è rimasto impresso…
E il tuo libro fa proprio questo?
Ci ho provato, almeno. Ma sembra che ci sia anche riuscito. I riscontri e le recensioni sono favorevoli… D’altronde non si può non rimanere affascinati di fronte a un racconto per immagini che ti
immerge in quel che era il calcio tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70. Èun excursus non solo nel calcio d’epoca ma anche nella società di allora. Certe immagini tratte da riviste sportive degli anni’60
raccontano di un modo di narrare il calcio ben diverso da adesso. Si privilegiava esclusivamente il fatto tecnico con estrema competenza. Molti articoli sportivi erano firmati da fior di letterati e
uomini dalla cultura eccelsa come Brera, Arpino, Del Buono, Bianciardi, solo per citarne alcuni. Anche l’evoluzione nell’aspetto grafico delle figurine, racconta l’evoluzione anche della società stessa.
Possiamo dire, senza commettere eresia, che è un libro di storia, di costume e società, quindi?
Se vogliamo “fare i fighi”, forse anche sì, ma il rischio è quello di farla un po’ fuori...
Allora restiamo più aderenti alla realtà. E’ un album?
Forse questo invece è un po’ riduttivo. Diciamo che non è un libro… anzi, e molto più che un libro! E’ un compendio di passioni vere, autentiche, quasi infantili ma è pur vero che gli occhi dei bambini non mentono e, siccome come dicevo prima, gli occhi sono una parte del corpo che non cresce mai con l’età, non possono che raccontare sempre e solo la verità. Ogni volta che osservo queste figure e queste figurine, i miei occhi raccontano di mille emozioni venuti dagli spicchi di un pallone di cuoio, da campi dall’erba incerta, da stadi zeppi e maglie multicolori.
Grazie, Daniele, della tua testimonianza.
Grazie a voi dello spazio che mi avete dato e… comprate il libro